Dott.ssa Laura Marchi

Psicologa Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale Pisa e provincia

Tag: ansia

EBOOK : Rendiamo virale la resilienza. Contro un virus che ormai è pandemia

RENDIAMO VIRALE LA RESILIENZA

Gli effetti psicologici del coronavirus

Se da circa un mese a questa parte tutti i media danno ripetutamente informazioni alla popolazione di natura medica, comportamentale, sul numero dei contagi, dei decessi e su quello dei guariti, poche sono le informazioni relative alle importanti ripercussioni emotive e psicologiche che ciò che stiamo vivendo in questi giorni può avere e su come fronteggiarle.

E’ inevitabile che una delle conseguenze importanti deriva dalla necessità, più che doverosa, di modificare drasticamente le proprie abitudini di vita, restando a casa, interrompendo per molti la propria attività lavorativa e soprattutto sociale. Tutto questo limita la propria libertà individuale e impone per qualcuno (chi vive da solo che rappresenta una grande parte della popolazione italiana) affrontare la solitudine, l’assenza di contatti intimi, affettivi che sono fondamentali per il nostro benessere psicologico. Per molti anziani, i soggetti più a rischio per le conseguenze del contagio, questo significa non vedere i propri nipoti, rinunciare ai loro rapporti quotidiani (vitali) con figli, amici, parenti. In un momento di stress elevato in cui la presenza dei propri affetti sarebbe una importante fonte di conforto e di rassicurazione per poterlo gestire al meglio, molti (a meno che non conviventi) sono costretti a rinunciarci.

Se gli anziani sono più vulnerabili da un punto di vista medico è anche vero che lo sono anche da un punto di vista psicologico perchè per loro si apre il capitolo solitudine con tutte le conseguenze che questo può portare. In molti casi non sono abituati ad utilizzare i social, che in questo periodo, aiutano molto a sentire la connessione con gli altri, conosciuti e non.  “State a casa”, che è l’imperativo di queste settimane, significa state soli, deprivati di contatti umani e affettivi, oltreché di tutte le attività di svago e fonte di benessere (sport, giochi, spettacoli, feste, cinema, teatri, circoli, club, associazioni e così via).

In altri casi la convivenza forzata può portare a galla in maniera “esplosiva” tensioni e conflitti familiari tenuti sotto controllo da una quotidianità scandita da impegni lavorativi, sport, relazioni che riescono a salvaguardare un equilibrio che, privato degli elementi di ancoraggio mantenuti sino a quel momento, può saltare portando con sè conseguenze molto gravi che possono sfociare in un aumento dei litigi fino alla violenza familiare a di i figli, in casa pure loro, diventano testimoni.

Cosa comporta tutto questo?

Se per alcuni questo periodo è costellato da sentimenti di ansia, solitudine, irritabilità, senso di costrizione, vuoto, tristezza, uniti alle preoccupazioni economiche e per la salute propria e dei propri cari, per altri, con meno risorse emotive e pratiche le conseguenze possono essere quelle di veri e propri disturbi depressivi, ansiosi che potrebbero durare a lungo e non risolversi spontaneamente.

Cosa possiamo fronteggiare questo periodo

Mi sento di dare qualche suggerimento per poter fronteggiare al meglio da un punto di vista psicologico questo periodo difficile che tutti stiamo vivendo e che non sarà breve. Innanzitutto scegliere bene le fonti di informazioni. Nei momenti di emergenza in cui la paura e l’irrazionale inevitabilmente rischiano di prendere il sopravvento, bisogna avere molta cura di sè e non mettersi in condizione di esporsi a informazioni non veritiere, allarmanti e non fondate su datti scientifici e oggettivi. I canali da seguire sono il  sito del Ministero della Salute: www.salute.gov.it e quello dell’Istituto Superiore di Sanità: www.epicentro.iss.it. E’ importante anche non sovraesporsi a queste informazioni, pertanto scegliere un momento massimo due della giornata da dedicare alle notizie sul coronavirus; farlo più spesso implica tenere il proprio sistema nervoso in uno stato di iper-allerta costante creando una condizione di stress cronico. Altra cosa importante non interrompere “per quanto possibile” la propria routine rispettando sempre le indicazioni di sicurezza vigenti: in questo momento di grande incertezza è importante ancorarsi a ciò che è certo e prevedibile. Quando è possibile continuare a lavorare da casa, cercare di riposarsi adeguatamente evitando di esporsi a notizie sul coronavirus la sera prima di andare a dormire e sostituirle con attività piacevoli (leggere, ascoltare musica, vedere un film, scrivere, cucinare per il giorno dopo, fare un bagno caldo, meditare, ecc). Questa può essere un’occasione per sviluppare la propria creatività e sperimentare nuove attività da fare a casa in un momento in cui abbiamo il tempo di farlo. Cercare di mangiare bene e in modo regolare, molta frutta, verdura e cereali che rafforzano il sistema immunitario. Ricordarsi di staccare la spina, usare la tecnologia in modo intelligente, fare video-chiamate, ricontattare persone che non si sentono da un pò, prediligere le telefonate e le videochiamate agli sms perchè ci fanno sentire più in contatto con gli altri, sebbene questa comunicazione non possa sostituire quella vìs a vìs. Parlate con una persona di fiducia, ma ricordate di parlare anche di altro, di tutto quello di cui avreste parlato se adesso non ci fosse il coronavirus. E’ molto importante preservare il proprio benessere psicologico in un momento in cui lo stesso è messo a dura prova.

In sintesi il momento storico che stiamo vivendo ha e avrà molte ripercussioni sulla nostra psiche e sulle dinamiche sociali oltre che economiche. Siamo in un momento di stress acuto, la paura è centrale nella vita di ognuno, per qualcuno è molto vicina, per altri meno, ma è dentro ciascuno di noi. Questo può portare a una sintomatologia da stress acuto provocata da un pericolo reale per la vita proprio e altrui, un pericolo sconosciuto, aggressivo, incontrollabile che è caratterizzata da: pensieri e/o immagini intrusive, ricorrenti, involontarie legate al coronavirus, sogni spiacevoli il cui contenuto e/o le emozioni sono collegate allo stesso, difficoltà ad addormentarsi o risvegli notturni, irritabilità, ipervigilanza, problemi di concentrazione, alterato senso di realtà del proprio ambiente o di se stessi (stato confusionale, rallentamento del tempo, ecc). Questa sintomatologia potrebbe risolversi nell’arco di un mese, il tempo necessario affinchè il cervello elabori i profondi e improvvisi cambiamenti e la perdita totale di controllo, ma in alcuni casi potrebbero perdurare.

Cosa fare?

Occorre monitorare il proprio umore, cogliendone i segnali di un significativo abbassamento: irritabilità, tristezza, sonno ridotto o disturbato, apatia, pensieri catastrofici, solo per fare alcuni esempi. Allo stesso modo è bene prestare attenzione allo stato di salute psicologica dei nostri cari, soprattutto delle persone più a rischio ed aiutarle a ridurre in ogni modo possibile la percezione di isolamento e alienazione.

Ove si ravvisino segnali di franchi disturbi depressivi o ansiosi è bene cercare di intervenire precocemente, cercando l’aiuto di uno psicoterapeuta cognitivo comportamentale, molti dei quali disponibili anche a sedute online, almeno temporaneamente. Nei casi più importanti o dove la psicoterapia non sia possibile o sostenibile è bene allertare il medico di base, che valuterà se e come avviare la persona a una terapia farmacologica di supporto.

Il paradosso delle tecniche di rilassamento: quando invece di rilassare inducono l’ansia

tecniche di rilassamento controproducentiIl Disturbo d’Ansia Generalizzata (DAG) è caratterizzata da un rimuginio eccessivo e incontrollabile e da ansia scatenata da un ampio range di potenziali eventi negativi futuri (Newman et al., 2013).

Il rimuginio è l’aspetto centrale di questo disturbo, ma è presente anche in altri disturbi d’ansia, depressivi e disturbi di personalità.

Le tecniche di rilassamento (rilassamento muscolare progressivo, respirazione diaframmatica, ecc) vengono spesso impiegate nel trattamento cognitivo-comportamentale del DAG.

Lo scopo principale delle tecniche di rilassamento è quello di insegnare alle persone abilità di coping che le aiutino a rilassarsi rapidamente e a ridurre la risposta ansiosa. I soggetti vengono invitati ad allenarsi quotidianamente nella tecnica di rilassamento proposta dal terapeuta in seduta in modo da imparare ad applicarla nella quotidianità in risposta a eventi o stimoli fonti di ansia.

Il beneficio è quello di arrivare a una riduzione della tensione fisiologica e dell’ansia applicando la tecnica alla prima comparsa di tensione o di rimuginio, in modo da interrompere il circolo vizioso che porta all’aumento dell’ansia e della tensione fisica stesse (Borkovec and Costello, 1993; Öst, 1987).

Il rilassamento però non porta sempre a una riduzione dell’ansia, al contrario potrebbe aumentarla in certi individui. Questo aumento paradossale viene chiamato Ansia Indotta dal Rilassamento e, nella dicitura inglese Relaxation Induced Anxiety(RIA; Heide and Borkovec, 1983). Questo fenomeno è stato descritto come un picco di ansia, tensione muscolare, pensieri o immagini ansiogene in individui che si stanno impegnando in esercizi di rilassamento (Heide and Borkovec,1983; Heide and Borkovec, 1984).

E’ piuttosto singolare questo fenomeno considerando che l’ansia come esito del rilassamento è esattamente l’opposto di quello che si propone di ottenere e che i soggetti con disturbi d’ansia, che hanno più bisogno di imparare il rilassamento e quindi di ridurre lo stato ansioso, sono anche quelli più vulnerabili a risposte di ansia inaspettate.

Sfortunatamente, è stata data poca attenzione al fenomeno dell’ansia indotta dal rilassamento. Heide and Borkovec (1983) sono stati i primi a studiarlo in una ricerca dove è emerso che tra i partecipanti con tensione cronica, il 30.8% di coloro che si impegnavano nel rilassamento muscolare progressivo e il 53.8% di coloro che praticavano la meditazione sperimentavano RIA. Similmente, Norton et al. (1985) ha trovato che l’ansia indotta del rilassamento era associata con livelli più alti di rimuginio, ansia e frequenza cardiaca.

Un altro studio ha trovato che individui con livelli più alti di RIA avevano una paura più elevata di diventare ansiosi e di perdere il controllo delle loro risposte di ansia rispetto agli individui con livelli più bassi di RIA (Braith et al., 1988).

Questo fenomeno sembra predire gli esiti negativi del trattamento in termini di minore riduzione dell’ansia e della depressione a seguito di interventi che prevedono tecniche di rilassamento (Borkovec et al., 1987, Borkovec and Costello, 1993).

Ci sono dati di letteratura ad oggi ancora insufficienti sui meccanismi del RIA ma alcune ipotesi significative sono state fatte.  La prima ipotesi suggerisce che il rilassamento porta le persone a focalizzarsi sui propri stati fisiologici interni (sensazioni fisiche, emozioni) e questo potrebbe renderli più sensibili e vulnerabili alla tensione del corpo.

Come conseguenza, il rilassamento provocherebbe un’ansia indotta da un arousal più elevato, o paura della paura (Braith et al., 1988, Heide and Borkovec, 1983, Heide and Borkovec, 1984, Norton et al., 1985, Reiss, 1987). Un’ altra ipotesi è che il RIA sia il risultato della convinzione e paura degli individui ansiosi di non essere capaci di controllare le loro emozioni negative (paura di perdere il controllo sulle emozioni; Braith et al., 1988, Heide and Borkovec, 1983, Heide and Borkovec, 1984, Norton et al., 1985).

Queste ipotesi sono simili al Modello del Rimuginio di Evitamento del Contrasto (Contrast Avoidance Model of Worry; Newman and Llera, 2011, Newman et al., 2013). Mentre le precedenti teorie sul rimuginio hanno suggerito che il worry riduce l’ansia (Newman e Llera, 2011), il modello di evitamento del contrasto suggerisce che il worry aumenta le emozioni negative e che gli individui con ansia preferiscono mantenere uno statto d’animo costantemente negativo come protezione contro un aumento improvviso dello stesso (es. “se sono già preoccupato e mi sento male, non percepirò chissà quale aumento dello stato d’animo negativo, quando mi capiterà qualcosa di realmente brutto”).

In modo simile alla nozione di ansia indotta dal rilassamento, il modello suggerisce che essere in uno stato di rilassamento rende più probabile che gli individui sperimentino le emozioni negative all’improvviso, se dovessero sperimentare un evento stressante o negativo. Di conseguenza, data la paura di perdere il controllo, gli individui ansiosi continuerebbero a sentirsi in ansia durante il processo di rilassamento. In questa ottica, il RIA potrebbe essere il risultato di un contrasto negativo (tra stato rilassato e stato ansioso) e del desiderio di mantenere uno stato emozionale negativo in modo costante (Llera and Newman, 2014; Newman et al., 2018).

Gli individui con GAD, paragonati ai soggetti non affetti da disturbi d’ansia, sarebbero più sensibili e proverebbero un disagio sensibilmente maggiore nei confronti dell’esperienza di contrasto tra uno stato emotivo di rilassamento e uno negativo. Per questo motivo i soggetti con GAD preferirebbero un umore negativo a uno stato di eutimia (However, Llera e Newman, 2014, 2017); per quanto sembri paradossale, ha una sua spiegazione logica se pensiamo al fatto che per questi soggetti sentirsi bene li rende più vulnerabili a percepire il contrasto emozionale negativo, aspetto che temono perchè convinti di non poter controllare.

Per quanto riguarda il trattamento, sembra essere efficace unire sia interventi di tipo cognitivo che comportamentale. L’intervento cognitivo potrebbe essere implementato modificando la paura dei pazienti delle emozioni negative improvvise e le credenze positive sul rimuginio.

Inoltre, esponendo ripetutamente i pazienti al contrasto (es. impegnarli in lunghe sessioni di rilassamento prima di esporli a immagini negative), essi potrebbero desensibilizzare la loro avversione ai cambiamenti improvvisi dello stato d’animo da positivo a negativo.

Qualsiasi tecnica di rilassamento dovrebbe essere impiegata dai terapeuti in seduta senza essere abbreviata o stoppata, ma fino a che l’ansia non decresce.

Ansia e disturbi d’ansia: sintomi e cura

Il termine ansia è entrato nel linguaggio comune ed è solitamente associato a uno stato negativo di apprensione di fronte ad una situazione percepita come minacciosa e verso la quale non sentiamo di avere le risorse necessarie per fronteggiarla.

In verità l’ansia di per sè non è un fenomeno patologico, anzi è un’emozione che si è rivelata molto utile per la nostra sopravvivenza, in quanto è legata all’attivazione del sistema di allarme del nostro organismo e ci avvisa della presenza di un pericolo, preparando l’organismo a difendersi attraverso la messa in atto strategie di attacco-fuga nei confronti della minaccia. L’ansia è un’emozione di base e, così come le altre emozioni, svolge una funziona importante per il nostro adattamento; è caratterizzata da diversi cambiamenti che avvengono in ognuno di noi, ti tipo cognitivo, affettivo, fisico e comportamentale che, in certi casi, possono assumere un carattere patologico per durata e intensità.

I sintomi cognitivi, fisici e comportamentali dell’ansia

Tra i sintomi cognitivi dell’ansia ci sono:

  • sensazione di testa vuota
  • difficoltà di concentrazione e di memoria
  • presenza di immagini, pensieri , ricordi negativi
  • sensazione di allarme e pericolo costanti
  • sensazione marcata di essere al centro dell’attenzione degli altri

Tra i sintomi fisici compaiono:

  • tachicardia
  • sudorazione
  • tremori
  • nausea
  • depersonalizzazione/derealizzazione
  • formicolii
  • vertigini

Tra i sintomi comportamentali troviamo tutti quei comportamenti che le persone in genere mettono in atto per avere un sollievo dall’ansia e sono:

  • evitamento della situazione che percepita come minacciosa (strategia “meglio prevenire che curare”)
  • ricerche di rassicurazioni
  • comportamenti protettivi (farsi accompagnare, portare con sè l’ansiolitico o assumerlo al bisogno).

Quando l’ansia diventa un sintomo: la paura della paura

I sintomi dell’ansia possono essere interpretati in modo catastrofico come segni di qualcosa di grave (es. un attacco cardiaco) generando in questo modo un aumento del livello di ansia e dei sintomi fisici ad essa associati attivando un circolo vizioso, la “paura della paura” che può arrivare sino al panico.  Se l’ansia è un’emozione che ci aiuta a mantenere uno stato di attivazione ottimale dell’organismo per poter affrontare prestazioni lavorative, scolastiche (es. un esame), sportive e per prepararci ad affrontare eventuali pericoli mobilitando le risorse del corpo, può diventare eccessiva o ingiustificata rispetto alle situazioni, portando a conseguenze negative su un piano prestazionale, relazionale, soggettivo, perdendo quindi la sua funzione positiva. E’ proprio in questo caso che  si parla di disturbo d’ansia.

Tra i disturbi d’ansia più diffusi troviamo:

  • Disturbo d’ansia generalizzata
  • Disturbo d’ansia sociale
  • Disturbo di panico e agorafobia
  • Fobie specifiche (aereo, spazi chiusi, cani, insetti, ecc).

Psicoterapia cognitivo-comportamentale per la cura dell’ansia

La psicoterapia cognitivo-comportamentale è il trattamento di elezione per molti disturbi, come confermano molti studi scientifici che ne hanno dimostrato l’efficacia rispetto ad altri interventi psicologici e, in molti casi, anche alle terapie farmacologiche. Il modello cognitivo alla base di questo approccio terapeutico afferma che la sofferenza emotiva è il risultato del modo in cui le persone danno significato agli eventi, dei pensieri negativi che formulano in modo rigido e sistematico. Pensieri, emozioni e comportamenti si influenzano reciprocamente in un circolo vizioso che si autoalimenta. L’obiettivo della psicoterapia è quello di identificare e ristrutturare tali pensieri alla base delle reazioni di ansia del soggetto e modificare i comportamenti che mantengono e alimentano il disturbo, come ad esempio l’evitamento delle situazioni percepite come minacciose. La terapia cognitivo-comportamentale si pone l’obiettivo di ridurre la sintomatologia in un tempo relativamente breve.

Qua parte prima sotto-finestra

Disturbo d’ansia sociale o fobia sociale

Il disturbo d’ansia sociale o fobia sociale è caratterizzata da ansia o paure marcate relative a situazioni sociali in cui l’individuo è esposto al giudizio negativo o al possibile esame degli altri. La paura di chi soffre di tale disturbo è quella di comportarsi di fronte agli altri in modo imbarazzante e di ricevere giudizi negativi. Spesso si accompagna all’evitamento di situazioni sociali in cui si sperimenta ansia, come quelle in cui si deve fare qualcosa di fronte ad altre persone (scrivere, mangiare, esporre una relazione, entrare in una stanza dove sono già tutti seduti). Una caratteristica di questo disturbo è l’ansia anticipatoria, ovvero l’ansia che precede le situazioni temute caratterizzata da continui rimuginii su ipotetici esiti sociali catastrofici. E’ importante distinguere l’ansia sociale dalla timidezza che è un tratto della personalità che non comporta particolari problematiche. Il disturbo d’ansia sociale tende a cronicizzarsi se non trattato, con conseguenze negative a livello personale, relazionale e prestazionale.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale si è dimostrata efficace nel trattamento dell’ansia sociale e si pone l’obiettivo di modificare le convinzioni irrazionali o disfunzionali del soggetto come ad esempio la convinzione che mostrare ansia sia un segno di debolezza oppure la convinzione di essere sempre attentamente osservati dagli altri (fenomeno del “public self”). Queste convinzioni si attivano quando la persona entra in un contesto sociale in cui si espone a un possibile giudizio degli altri, facendo aumentare l’ansia. La terapia mira a mettere in discussione tali pensieri e a insegnare abilità per poter gestire l’ansia nei contesti sociali (mindfulness, tecniche di rilassamento).

Chi è affetto da un disturbo d’ansia sociale tende a sperimentare ansia marcata in una o più delle seguenti situazioni:

  • partecipare ad attività in piccolo gruppo
  • parlare con qualcuno che ha una posizione di autorità
  • incontrarsi con persone sconosciute
  • esprimere disaccordo o disapprovazione a qualcuno che si conosce poco
  • restituire della merce in negozio
  • scrivere o lavorare mentre si è osservati
  • sottoporsi a un esame
  • andare a una festa
  • bere con altri in pubblico

qua altra sotto-finestra

Disturbo di panico: sintomi e cura

Un attacco di panico consiste nella comparsa improvvisa di paura o disagio intensi che raggiunge il picco in pochi minuti, periodo durante il quale il soggetto sperimenta una serie di sintomi:

  • palpitazioni, cardiopalma o tachicardia
  • sudorazione
  • tremori fini o grandi scosse
  • dispnea o sensazione di soffocamento
  • dolore o fastidio al petto
  • nausea o disturbi addominali
  • sensazione di vertigine, di instabilità, di “testa leggera” o di svenimento
  • brividi o vampate di calore
  • parestesie (sensazione di torpore o formicolio)
  • derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi)
  • paura di perdere il controllo o di impazzire
  • paura di morire

Un singolo episodio di attacco di panico, vissuto come improvviso e inaspettato, in alcuni casi può innescare la paura di nuovi attacchi, la cosiddetta “paura della paura” responsabile dell’instaurarsi di un circolo vizioso che si autoalimenta e che spesso si accompagna all’agorafobia, ovvero l’ansia di trovarsi in luoghi o situazioni dai quali sarebbe difficile o imbarazzante allontanarsi o nei quali potrebbe non essere disponibile un aiuto in caso di attacco di panico. Di conseguenza, il soggetto che soffre di un disturbo di panico evita tali situazioni o le affronta solo se accompagnato da un familiare, creando quindi una situazione di dipendenza dalle figure familiare, costrette a stare vicine al paziente.

La terapia cognitivo-comportamentale è la terapia di prima scelta per la cura del disturbo di panico, è controindicato affidarsi ai farmaci senza che siano affiancati da un trattamento psicoterapico di questo tipo. Il lavoro si concentrerà sulla ristrutturazione dei pensieri catastrofici (avrò un infarto, sverrò, farò cose sconvenienti e perderò il controllo, ecc) in modo che la persona impari a interpretare le sensazioni fisiche per quelle che sono, segnali del corpo del tutto innocui e a interrompere l’escalation del panico smettendo di temerle. E’ importante aiutare il paziente ad esporsi gradualmente alle situazioni temute, contrastando in questo modo l’evitamento, comportamento che mantiene il disturbo e alle sensazioni temute attraverso esercizi di esposizione enterocettiva, facendo in modo che il soggetto riprenda a svolgere le attività (sport, spostamenti da solo in macchina, ecc) che ha interrotto a causa del panico

 

Rimuginio ansioso

A chi non è mai capitato di rimanere ‘coinvolto’ in catene di pensieri negativi e ripetitivi senza riuscire a fermarsi?

La tendenza a rimuginare, infatti, rappresenta un’esperienza comune dell’essere umano e non è necessariamente associata a disturbi affettivi o a conseguenze negative sul benessere psicologico; ciò che tende a variare molto all’interno della popolazione generale è la frequenza e l’intensità con la quale le persone si dedicano a questa attività mentale. La distinzione tra rimuginio normale e patologico può essere fatta su base quantitativa e non qualitativa; pertanto coloro che hanno un’elevata tendenza a rimuginare si impegnerebbero con maggiore frequenza e durata in questa attività mentale, sperimentandone gli effetti negativi sullo stato affettivo e la performance, rispetto a coloro considerati ‘rimuginatori normali’. Il rimuginio rappresenta la caratteristica centrale del Disturbo d’Ansia Generalizzato, caratterizzato da ansia e apprensione eccessive, che si manifestano per la maggior parte dei giorni per almeno 6 mesi, relative ad una quantità di eventi o di attività.

Il rimuginio è definito come un processo mentale o uno stile di pensiero ripetitivo, verbale, astratto che si riferisce a possibili eventi negativi futuri e a strategie per impedire che tali minacce avvengano. Le caratteristiche centrali sono quindi la natura prevalentemente verbale del rimuginio, ovvero non sono presenti immagini mentali dettagliate.

In chi tende a rimuginare molto, sono presenti credenze cosiddette ‘positive’ sui vantaggi e l’utilità del rimuginio stesso (‘preoccuparmi mi aiuterà ad evitare pericoli o catastrofi future’) e credenze negative (la preoccupazione è incontrollabile e può essere pericolosa per la salute fisica e/o mentale; ‘se continuo a preoccuparmi in questo modo impazzirò’) e queste credenze contribuirebbero al suo mantenimento.

Alla base della tendenza a rimuginare è presente l’intolleranza all’incertezza, ovvero la difficoltà ad accettare l’assenza di certezza e la natura ipotetica probabilistica e di molti eventi della nostra vita. Chi si preoccupa eccessivamente deve continuare a farlo fino a quando l’incertezza, rispetto ad una situazione che non è ancora avvenuta ma che potrebbe verificarsi, non si è risolta, ma data la natura ipotetica ed astratta del rimuginio, risulta impossibile azzerare il dubbio e quindi smettere di rimuginare.

Alcuni ricercatori hanno sviluppato l’ipotesi che il rimuginio dipenda da differenze individuali rispetto all’intolleranza dell’incertezza, per cui coloro che sono particolarmente intolleranti nei confronti dell’incertezza, tendono a preoccuparsi maggiormente nel tentativo di risolverla.

E’ possibile intervenire da un punto di vista psicologico su questo meccanismo ricorsivo del pensiero con le più recenti tecniche di terapia cognitivo-comportamentale di terza generazione (mindfulness, detached-mindfulness, defusione cognitiva) e intervenendo sulle credenze che mantengono il rimuginio che, sebbene venga vissuto come automatico e fuori controllo dalla persona, può essere interrotto con notevoli benefici sulla quota ansiosa e sul senso di autocontrollo personale.

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